News dal mondo dei trapianti d'organo

Il congedo per cure

Avvocato Claudio Paolini

Trattando della disciplina legale del demansionamento e del licenziamento per superamento del periodo di comporto e per inidoneità sopravvenuta allo svolgimento della mansione, abbiamo visto fino a che punto la patologia di chi deve sottoporsi a trapianto o ha già affrontato l’intervento possa arrivare a incidere sulla propria vita lavorativa e, in alcuni casi, sulla possibilità di conservare il posto di lavoro.

Strettamente connesso a questa tematica è l’istituto del congedo per cure, oggi disciplinato dal Decreto Legislativo n. 119 dell’18/07/2011, art. 7.

I lavoratori a cui sia stata riconosciuta l’invalidità civile, con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%, possono fruire, ogni anno, di un congedo per cure, per un periodo non superiore a 30 giorni, anche in maniera frazionata. La fruizione frazionata del congedo deve intendersi a giornate e non a ore. Non si può godere del congedo per sottoporsi a visite mediche, ma esclusivamente per effettuare dei cicli di terapie e cure.

Il congedo è accordato dal datore di lavoro in seguito alla domanda del dipendente, in cui vanno indicati i giorni di cui si intende fruire a tale titolo. Il datore non gode di nessuna discrezionalità nella concessione del congedo e nella limitazione della sua durata e, dunque, deve limitarsi a prendere atto della richiesta pervenutagli. La domanda deve essere inviata nelle forme eventualmente previste dal Contratto Collettivo Nazionale applicabile al proprio settore di riferimento o, in mancanza, avvalendosi di modalità analoghe a quelle seguite per le comunicazioni relative alla malattia. Essa, inoltre, deve essere corredata dalla richiesta del medico convenzionato con il SSN o appartenente ad una struttura pubblica, dalla quale deve risultare che si tratta di cura resa necessaria dalla stessa patologia che ha determinato il riconoscimento della invalidità civile. In altri termini deve, pertanto, essere certificato che esiste un nesso fra il congedo e la patologia stessa. Devono anche essere indicati il tipo e la durata della cura/terapia; va, inoltre, allegato il verbale della Commissione medica invalidi civili, dal quale risulta il riconoscimento della invalidità civile, con la relativa percentuale.

Durante il congedo, il dipendente ha diritto di percepire il trattamento retributivo calcolato secondo il regime economico delle assenze per malattia. Il congedo non è indennizzabile dall’Inps e, dunque, il relativo trattamento economico rimane a carico del datore di lavoro.

Il lavoratore, al rientro, è tenuto a documentare l’avvenuta sottoposizione alle cure, producendo idonea documentazione, rilasciata dalla struttura in cui sono state eseguite. Nel caso in cui egli si sia sottoposto a trattamenti terapeutici continuativi, a giustificazione della sua assenza dal lavoro, può essere prodotta una attestazione continuativa, anche qualora il congedo venga fruito in maniera frazionata.

Un aspetto molto importante da evidenziare è che i giorni di congedo per cure non rientrano nel calcolo del periodo di comporto (periodo massimo di assenza dal lavoro per malattia, durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro), ma costituiscono un periodo ulteriore (art. 7, comma 3 del Decreto n. 119/2011). Pertanto, i giorni di assenza per congedo non andranno a erodere i giorni complessivi di cui il dipendente, normalmente, può godere per malattia. Il congedo, quindi – soprattutto nel caso di patologie gravi, che costringono il paziente ad assentarsi dal lavoro ripetutamente e/o per periodi prolungati – può servire a mitigare gli effetti derivanti dal superamento del periodo di comporto, a causa del quale il datore di lavoro può giungere anche a licenziare il dipendente.

Ai sensi della Legge 30/03/1971, n. 188, ogni persona affetta da “minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo”, che comportino una riduzione permanente della sua capacità lavorativa non inferiore al 33% (per i minori di diciotto anni e per gli ultrasessantacinquenni le minorazioni devono comportare “difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età”) ha diritto di richiedere il riconoscimento della invalidità civile, con apposita domanda da inoltrarsi all’Inps.

È di tutta evidenza, quindi, che il congedo rappresenta uno strumento utile a favore di quei lavoratori che dovranno sottoporsi o si sono già sottoposti a trapianto. Infatti, dalle tabelle ministeriali in cui sono elencate le patologie che danno diritto al riconoscimento della invalidità civile, con indicazione del relativo valore percentuale (Decreto del Ministero della Sanità del 5/2/1992), si rileva che, in caso di trapianto, in linea generale, sono attribuibili percentuali superiori al 50% (ad es.: trapianto renale 60%, trapianto cardiaco in assenza di complicanze dal 71% all’80%), che, come visto, danno appunto diritto di accedere al congedo per cure.

Claudio Paolini
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Inidoneità al lavoro e licenziamento: i diritti del paziente e dell'azienda a confronto

Avvocato Claudio Paolini

Abbiamo visto, in precedenza, che, qualora il medico competente abbia accertato la inidoneità del lavoratore alla sua mansione specifica di assegnazione, causata dalle sue condizioni di salute, il datore di lavoro è tenuto ad assegnarlo a mansioni a questa equivalenti. Qualora queste non siano presenti nel contesto aziendale, il nostro ordinamento, al fine di preservare al massimo grado il posto di lavoro del dipendente dichiarato inidoneo, prevede che egli possa essere assegnato anche a mansioni inferiori (demansionamento), a condizione che esse siano compatibili con le sue condizioni di salute.

Va evidenziato, però, che la disciplina di legge prevede che il datore debba procedere in tal modo, “ove possibile”. Ciò significa che, qualora, per ragioni oggettive, attinenti alla organizzazione aziendale, non sia possibile neppure procedere al demansionamento, la sopravvenuta inidoneità del lavoratore produce conseguenze sulla prosecuzione del rapporto di lavoro, comportandone la cessazione. In particolare, in questa circostanza, si può giungere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per impossibilità sopravventa della prestazione lavorativa, ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604 del 15 luglio 1966. Tale licenziamento è definito “oggettivo”, in quanto non trova la propria causa in un comportamento del lavoratore contrario alle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro (e, quindi, non ha carattere disciplinare), bensì dipende da una sua situazione soggettiva (la inidoneità fisica o psichica sopravvenuta), che, riducendone la capacità lavorativa, si ripercuote – su un piano, appunto, oggettivo – sulla attività aziendale e sulla organizzazione del lavoro.

Perché tale licenziamento sia legittimo, devono sussistere le seguenti condizioni.

  • stato di malattia, tale da non consentire una prognosi definitiva di durata (questa situazione è diversa da quella della malattia di carattere temporaneo, che resta circoscritta nel periodo temporale del comporto);
  • assenza di un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle prestazioni, anche ridotte, del lavoratore;
  • impossibilità di assegnare il dipendente ad altre mansioni: il ricollocamento del lavoratore, come vedremo, deve avvenire senza che vi sia la necessità di imporre al datore di lavoro modifiche dell’assetto organizzativo dell’azienda.

È importante ribadire che non si può legittimamente ricorrere al licenziamento in maniera automatica, ossia per il solo fatto che è stata accertata la inidoneità del dipendente. Con la sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, dovrà adempiere al cosiddetto . “obbligo di repéchage”. In altri termini, il licenziamento potrà essere considerato legittimo solo qualora il datore, in sede di vertenza, sia in grado di fornire la prova della impossibilità di ricollocare proficuamente il dipendente, assegnandogli mansioni diverse da quelle attualmente svolte, compatibili con le sue residue capacità lavorative, pena la nullità del licenziamento stesso. Questo obbligo non è previsto espressamente da nessuna norma, ma è stato individuato e definito dalla giurisprudenza. Esso trova il suo fondamento nella tutela costituzionale del lavoro e nella conseguente necessità che la scelta datoriale di licenziare il lavoratore divenuto inidoneo non possa essere dettata da scopi espulsivi, legati alla persona del dipendente (divieto del licenziamento discriminatorio).

Il licenziamento, quindi, deve – e può – rappresentare l’ultima ed estrema misura, da adottarsi solo quando non esistono alternative che consentano all’imprenditore di preservare il posto di lavoro del dipendente, in una modalità che deve essere compatibile, al tempo stesso, con la sua salute e anche con la organizzazione aziendale esistente. Con la sentenza n. 26675 del 2018, la Cassazione, a fronte di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato per sopravvenuta inidoneità fisica della dipendente, senza avere effettuato il doveroso tentativo di repéchage, ha disposto la reintegrazione di questa nel posto di lavoro.

Da quanto sinora esposto, si comprende quanto la tematica in esame sia particolarmente significativa per i lavoratori affetti da una patologia di gravità tale da rendere necessario un trapianto d’organo. In tali casi, infatti, può realizzarsi, in tutta la sua ampiezza, la problematica correlata alla sopravvenuta inidoneità alla mansione specifica.

Nel caso in cui ci si trovi costretti ad impugnare, in sede giudiziale, un licenziamento per inidoneità fisica è importante sapere che, nel nostro ordinamento, non esiste alcun dovere del datore di lavoro di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda, al fine di ricollocare utilmente il dipendente. I criteri di gestione dell’impresa e della organizzazione del lavoro, infatti, appartengono alla discrezionalità dell’imprenditore e sono insindacabili anche da parte del giudice. Il magistrato, considerata la residua capacità di lavoro del dipendente e tenuto conto della organizzazione dell’azienda, come definita insindacabilmente dal datore di lavoro, dovrà valutare se persiste un interesse di quest’ultimo alla prestazione lavorativa. In questo ambito vi è la necessità di bilanciare la tutela di diritti ed interessi contrapposti, che hanno tutti rilevanza costituzionale: da un lato il diritto al lavoro ed alla sua conservazione, alla retribuzione ed alla salute del dipendente (artt. 4, 32 e 36 Cost.), dall’altro la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore (art. 41 Cost.). Il fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è costituito proprio dall’art. 41 Cost. In applicazione di questo principio, in sintesi, quando sussiste un contrasto tra l’interesse del dipendente alla conservazione del posto di lavoro e quello dell’imprenditore a non avvalersi più di risorse che non siano funzionali alle esigenze dell’impresa, prevale il secondo.

Sul piano pratico, ciò comporta che l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale mansione, ad attività diverse può essere legittimamente rifiutata dall’imprenditore, qualora comporti aggravi organizzativi a carico dell’azienda. Ad esempio, il datore di lavoro non potrà essere obbligato ad assegnare a mansioni diverse, seppur esistenti nell’ambito dell’azienda, il dipendente dichiarato inidoneo alla propria mansione, qualora questa assegnazione, per essere realizzata, comporti il trasferimento di altri lavoratori (o modifiche peggiorative della loro posizione di lavoro) o alterazioni dell’organigramma aziendale. Una volta rilevata la inidoneità del lavoratore, quindi, il datore di lavoro soddisferà l’obbligo di provare la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento – impostogli dall’art. 5, della Legge n. 604/1966 – dimostrando che, nell’ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un impiego proficuo di questo lavoratore non è possibile o, comunque, non è compatibile con il buon andamento dell’impresa. Quest’ultimo potrà fornire una prova contraria, indicando, in maniera specifica, ad esempio, quali siano le mansioni esistenti in quel dato contesto aziendale, da lui effettivamente esercitabili e dimostrando anche la sua idoneità fisica allo svolgimento delle stesse.

Claudio Paolini
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Il “procurement”

Piercarlo Salari, pediatra

Procurement” è un temine inglese, ed anche se non parlate questa lingua, per assonanza con la nostra potete immaginare il significato: “procurare”. Questa parola, applicata a un ambito particolare della scienza e della Medicina dei trapianti, assume il significato di “reperimento”.

Il procurement, dunque, identifica l’insieme di attività e processi per selezionare un potenziale donatore di qualunque organo, ‘reperire’ e identificare quelli che possono essere i candidati a una donazione, e successivamente avviare tutta la “macchina” che, in un tempo rapidissimo (perché la vita degli organi una volta espiantati dal corpo che li dona ad un altro ridandogli vita, è molto limitato, pari a poche ore), deve preoccuparsi del prelievo dell’organo dal donatore, della selezione del ricevente, che deve avere caratteristiche idonee e compatibili ad ospitare quell’organo specifico così da limitare al minimo qualunque possibilità di rigetto e/o di eventuale altra complicanza, e quindi del trapianto.

Il procurement è una rete di strutture, persone, procedure che lavorano in squadra, in modo efficiente e sinergico, affinché il percorso donazione-trapianto, in tutte le sue fasi, vada a buon fine. Insomma, deve esistere tra il procurement e i vari attori coinvolti, un perfetto coordinamento.

Operatività e compiti

Principale compito e impegno del procurement è l’ottimizzazione del processo di identificazione dei potenziali donatori, garantendo la messa in campo di tutte le iniziative mirate a questo scopo, estesa anche al monitoraggio e alla valutazione continua delle performance delle strutture coinvolte e che contribuiscono al buon andamento dell’intero sistema trapianti. Infatti, la rete del procurement deve essere organizzata a livello territoriale e funzionare alla perfezione nel suo complesso, cioè sia a livello nazionale sia regionale, sia della singola struttura nel rispetto degli obiettivi dei programmi di trapianto. L’identificazione del soggetto con potenzialità di donazione è un compito che spetta ai medici di area critica, degli intensivisti in particolare, che operano secondo le procedure stabilite dalle linee-guida clinico-organizzative nazionali (cioè del Centro Nazionale Trapianti, CNT), regionali (del Centro Regionale Trapianti, CRT) e locali (della struttura). Il lavoro del procurement ha inizio nel momento in cui al Coordinamento locale ospedaliero giunge una segnalazione. A questo punto si attiva la sua funzione di coordinamento del processo di donazione e parte l’accertamento di morte del supposto candidato alla donazione d’organi. Senza questo processo, ovvero di morte accertata (e non solo presunta) della persona donatrice non si può procedere (per legge e per deontologia professionale, etica e morale) alle varie fasi di donazione e trapianto.

In termini operativi i principali compiti di coordinamento del procurement sono:

– assicurare l’immediata comunicazione dei dati del donatore, tramite il sistema informativo dei trapianti (il SIT) al Centro regionale o interregionale competente e al CNT che provvederà all’assegnazione degli organi al ricevente compatibile;

– curare i rapporti con le famiglie dei donatori;

– coordinare gli atti amministrativi relativi agli interventi di prelievo;

– organizzare le attività di informazione, educazione e sensibilizzazione in materia di trapianti per il territorio di competenza.

Il coordinatore locale

A livello locale, il procurement è dunque il terzo anello del sistema trapianti, dopo quello nazionale (CNT) e regionale (CRT), ma di pari importanza per la realtà territoriale in cui opera. La rete Regionale del Procurement svolge la sua attività in collaborazione sinergica con i Centri Trapianto (Nazionale e Regionale) e le Banche dei Tessuti. La rete del procurement, oltre alle fasi organizzative, deve garantire un’adeguata e qualificata assistenza clinica al potenziale donatore così da mantenere nelle migliori condizioni possibili gli organi da prelevare, in tutte le fasi: dalla gestione dell’insufficienza d’organo alla fase di trapianto e del breve e lungo periodo del post-trapianto. Tutte le operazioni del procurement e dell’intero processo del sistema trapianto sono gestite da personale qualificato e adeguatamente formato per la sicurezza del paziente che riceverà l’organo donato.

Fonti

P
Piercarlo Salari
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Il trapianto “split” di fegato

Piercarlo Salari, pediatra

Se in un primo tempo il trapianto di fegato, effettuato per la prima volta nel 1963 presso l’Università del Colorado (in Italia nel 1982 a Roma), era considerato una procedura sperimentale, dopo gli anni 80 è diventato un’indicazione elettiva per la cura di numerose malattie epatiche non altrimenti curabili.

Recentemente, inoltre, si è sviluppata la tecnica chirurgica dello “split di fegato”. Il termine “split” significa “divisione”: in pratica dal fegato di un donatore si possono ottenere due porzioni, generalmente una più grande, da impiantare in un ragazzo o in adulto, e una di dimensioni inferiori, adatta alla corporatura di un bambino (l’alternativa in un bambino è infatti l’impianto di un fegato prelevato da un donatore pediatrico). Un’altra possibilità, applicando una procedura differente sul piano pratico ma concettualmente analoga, è di trapiantare due adulti. Grazie a questa metodica si può così ottimizzare un organo effettuando due trapianti. Da maggio 2021 è operativo il nuovo protocollo approvato dal Centro Nazionale Trapianti.

In aggiunta, all’Ospedale Bambino Gesù di Roma l’esecuzione di un trapianto split di fegato è stata combinata per la prima volta al mondo con l’impiego della macchina di perfusione extracorporea, di cui il centro è dotato dal 2018. Questa è una tecnologia emergente degli ultimi anni che è spesso utilizzata nel trapianto di organi interi, quali fegato, rene, polmoni e cuore, in pazienti adulti, e che permette di conservare in maniera più efficace gli organi rispetto alla modalità classica (immersione dell’organo nella soluzione di conservazione e ghiaccio). Con la macchina di perfusione extracorporeA, infatti, la soluzione di conservazione fredda, a cui viene aggiunto l’ossigeno (perfusione ipotermica) oppure sangue ossigenato (perfusione normotermica), viene fatta circolare all’interno dell’organo da trapiantare. Questa tecnica offre tre importanti vantaggi:

  • innanzitutto quello di prolungare i tempi di ischemia, cioè l’intervallo durante il quale l’organo rimane al di fuori dell’organismo;
  • permette poi di migliorare la conservazione dell’organo riducendo il danno cellulare e di valutarne durante la perfusione la capacità di funzionare una volta trapiantato (in prospettiva, durante la perfusione sarà possibile “modificare” l’organo, rendendolo ad esempio più compatibile dal punto di vista immunologico);
  • consente di aumentare il numero degli interventi perché consente di trapiantare con maggiore sicurezza organi che altrimenti non verrebbero utilizzati, quali organi prelevati da donatori a cuore non battente, organi da donatori di età avanzata oppure organi prelevati in sedi molto lontane dal centro trapianti.

Nel caso specifico, i chirurghi del Bambino Gesù hanno utilizzato la macchina di perfusione per “dividere” un fegato prelevato fuori Italia, dove non sarebbe stato possibile effettuare lo split, e realizzare così due trapianti contemporanei. In assenza del macchinario, visti i tempi di ischemia molto lunghi, ci sarebbero stati maggiori rischi di malfunzionamento degli organi trapiantati: in uno dei due riceventi, infatti, il fegato è stato trapiantato dopo 16 ore di conservazione, quando normalmente il tempo massimo è di 8-10 ore.

Fonti

  • Rossi M et al. http://www.siumb.it/files/journal/2007/3/ART5ROSSI.pdf
  • Protocollo sulle procedure di split liver (operativo dal 17 maggio 2021). https://www.trapianti.salute.gov.it/imgs/C_17_cntPubblicazioni_414_allegato.pdf https://www.trapianti.salute.gov.it/imgs/C_17_cntPubblicazioni_414_allegato.pdf
  • Primo fegato diviso con macchina di perfusione epatica – Comunicato stampa del 18/8/2020 Ospedale Bambino Gesù
Piercarlo Salari
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Quale attività fisica dopo il trapianto di polmone

Paolo Solidoro. AOU città della salute e della scienza di Torino, Presidio Molinette SC Pneumologia U, Dipartimento Cardiovascolare e Toracico Università di Torino, Dipartimento scienze Mediche

La sopravvivenza, sia in soggetti sani che in pazienti affetti da patologie croniche, respiratorie, cardiologiche e metaboliche, è direttamente correlata all’attività fisica; obiettivo di ogni terapia, medica e chirurgica, è quindi anche il ripristino e l’ottimizzazione dell’attività motoria.

In particolare nel trapianto polmonare la sostituzione di un organo fondamentale nella ossigenazione di organi e tessuti favorisce un netto miglioramento delle potenzialità aerobiche in pazienti che avevano prima della procedura una gravissima e non differentemente approcciabile limitazione funzionale motoria secondaria a dispnea, ipossiemia e ipossia tissutale.

Nella fase pretrapianto polmonare è indispensabile identificare nel corso della valutazione fattori che possano controindicare una regolare riabilitazione post trapianto, e pertanto alcune comorbilità (per esempio osteoporosi con crolli vertebrali o patologie osteomuscolari che impediscano la deambulazione, patologie neurologiche degenerative o traumatiche causa di paraplegia) costituiscono controindicazione assoluta all’inserimento in lista attiva.

Inoltre il mantenimento di regolare attività motoria permette di arrivare, quando possibile, al momento chirurgico nelle migliori condizioni fisiche e facilitare il recupero post procedurale.

Nella fase post trapianto il recupero dell’attività fisica è basilare non solo per ottenere una regolare vita di relazione, ma anche per consentire il recupero funzionale respiratorio grazie allo stimolo ventilatorio indotto dall’esercizio. In tal modo si può ottimizzare l’interazione meccanica tra i “nuovi” polmoni (con resistenze delle vie aeree e viscoelastiche influenzate dalla fase di ischemia-riperfusione) e parete toracica (sottoposta all’insulto chirurgico ella toracotomia) ottenendo un nuovo equilibrio che era andato deteriorandosi per la patologia che ha reso necessario il trapianto.

Successivamente per i pazienti si apre una nuova era di recupero di attività sportiva precedentemente abbandonata con grande soddisfazione personale e sensazione di rinascita. La riabilitazione respiratoria e l’allenamento allo sforzo costituiscono quindi un momento cruciale nel recupero del paziente sottoposto a trapianto polmonare, essendo parte della valutazione pretrapianto, della preparazione alla chirurgia, del recupero post trapianto e dell’ottimizzazione dei rapporti tra l’organo e la parete toracica, ed infine il mezzo principale per il recupero dell’attività sociale, ludica, sportiva e di relazione

Paolo Solidoro
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Cos'è il periodo di comporto e il rischio licenziamento

Avvocato Claudio Paolini

Il lavoratore affetto da una patologia di gravità tale da rendere necessario un trapianto può avere la necessità di assentarsi dal lavoro per motivi di salute o per sottoporsi a controlli medici ed esami, anche ripetutamente e/o per periodi prolungati di tempo. Egli, pertanto, può, suo malgrado, incontrare la problematica derivante dal superamento del periodo di comporto, che è il periodo massimo di giorni di assenza dal lavoro per malattia, trascorso il quale, non ha più diritto alla conservazione del posto di lavoro. La durata di tale arco temporale è stabilita dalla Legge o dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) applicabile alla sua categoria di appartenenza: è, quindi, molto importante conoscere la durata del comporto, stabilita per il settore di lavoro e la categoria a cui si appartiene. In molti casi, i CCNL prevedono un periodo di comporto unico, che prescinde dallo status di disabilità o invalidità civile del lavoratore.

Nel computo dei giorni di comporto, in ogni caso, non si conteggiano i giorni di congedo per cure (30 giorni ogni anno, anche frazionabili), fruibili dai soggetti invalidi civili, con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%, ai sensi dell’art. 7 del Decreto Legislativo n. 119 del 18/07/2011.

Scaduto il comporto, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2110, 2° comma del codice civile, ha la facoltà di procedere al licenziamento del lavoratore “per superamento del periodo di comporto”, ossia per il solo fatto che questo tetto massimo è stato sforato, senza che sia necessaria nessuna ulteriore ragione. Ciò significa che, per procedere in tal senso, il datore non è tenuto a fornire la prova della incompatibilità fra la durata prolungata delle assenze e l’organizzazione e le esigenze aziendali. In questo frangente, egli non è nemmeno obbligato a informare il lavoratore del fatto che il periodo di comporto si sta esaurendo, salvo che tale obbligo sia espressamente previsto dalla contrattazione collettiva o che questi abbia fatto una specifica richiesta in tal senso. Per il caso di patologie gravi, tuttavia, una parte della giurisprudenza sostiene che il datore di lavoro sia tenuto a pre-avvertire il dipendente dell’imminente scadenza del comporto, nel rispetto dei principi generali di buona fede e correttezza, vigenti in ogni rapporto contrattuale e, dunque, anche nell’ambito del rapporto di lavoro. In queste ipotesi, quindi, se l’imprenditore omette di comunicare al lavoratore che il comporto sta per essere superato, finisce per realizzare una condotta discriminatoria. La mancata comunicazione, infatti, in tal caso, costituisce una discriminazione, in quanto riguarda soggetti che, per la loro grave patologia, si trovano in una condizione diversa rispetto agli altri dipendenti e che, a causa di una simile omissione, potrebbero trovarsi in una situazione di particolare svantaggio rispetto a questi ultimi. Va ricordato che il licenziamento discriminatorio è espressamente vietato dal Decreto Legislativo n. 216/2003 (modificato con Decreto Legge n. 59/2008), emanato in attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Una volta scaduto il comporto – e solo dopo la sua scadenza -, se l’imprenditore decide di recedere dal rapporto di lavoro dopo che il lavoratore è rientrato in servizio, deve tempestivamente comunicargli, per iscritto, la propria volontà di licenziarlo, specificando che il licenziamento deriva, appunto, dal superamento del periodo di comporto. La tempestività di questa comunicazione è necessaria, in quanto l’inerzia prolungata del datore di lavoro, una volta che il dipendente, terminata la malattia, è rientrato al lavoro, alla luce delle circostanze del caso concreto, potrebbe assumere il significato di una volontà tacita di rinunciare al licenziamento. Tale inerzia, inoltre, potrebbe ingenerare nel lavoratore un legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto di lavoro; da questo punto di vista, quindi, sarebbe contrario a correttezza un licenziamento intervenuto solo in un momento di molto successivo rispetto al suo rientro al lavoro.

Il lavoratore ha la possibilità di sospendere il decorso del periodo di comporto, per evitare di trovarsi esposto al rischio di essere licenziato a causa della sua scadenza.

Egli, a tal fine, può chiedere di fruire dei giorni di ferie maturati e non goduti, in sostituzione dei giorni di malattia. La richiesta va fatta per iscritto, va presentata prima del superamento del periodo di comporto e deve indicare il momento dal quale si vuole convertire l’assenza per malattia in assenza per ferie. Va, però, ricordato che il datore di lavoro, in linea generale, non è necessariamente obbligato a concedere le ferie richieste. L’articolo 2109, 2° comma del codice civile, infatti, gli attribuisce il diritto di stabilire la collocazione temporale delle ferie nel corso dell’anno, armonizzando l’interesse del lavoratore con le esigenze dell’impresa. Tuttavia, se non le concede, in caso di contenzioso, dovrà provare l’esistenza di un oggettivo interesse aziendale, concreto ed effettivo, talmente rilevante da non potere assecondare la richiesta del dipendente. Tale interesse dovrà essere particolarmente significativo, tenuto conto che, in questi casi, il rifiuto di concedere le ferie potrebbe esporre il lavoratore alla possibile perdita del posto di lavoro. Il diritto dell’imprenditore di scegliere il tempo delle ferie, sancito dal citato articolo, quando queste sono funzionali a evitare il decorso del comporto, dunque, viene limitato in maniera stringente dalle clausole generali di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto di lavoro.

Il lavoratore, inoltre, entro la scadenza del periodo di comporto, potrà chiedere un periodo di aspettativa – non retribuita e senza decorrenza di anzianità ai fini pensionistici -, di cui fruire in continuità rispetto al comporto (senza, cioè, che fra i due periodi intercorrano giorni “scoperti”), sempre al fine di evitare che il prolungarsi della malattia possa comportare il suo licenziamento.

Vi sono, infatti, alcuni CCNL di settore che prevedono questa possibilità, stabilendo i presupposti e la durata della aspettativa, oltre che le modalità della relativa richiesta. In questi casi, la concessione del periodo di aspettativa diviene obbligatoria. La sua durata massima può essere maggiore per il caso di gravi patologie, con la previsione di un ulteriore allungamento, qualora la patologia abbia carattere continuativo e comporti la necessità di terapie salvavita, comprovate da idonea documentazione. In questi casi, il lavoratore ha l’onere di informare il datore dell’insorgenza e della natura della propria patologia, prima che egli eserciti la facoltà di licenziarlo. Il carattere di “gravità” della patologia deve essere accertato e dichiarato da un medico della competente Ausl di riferimento o struttura convenzionata. Il licenziamento eventualmente comunicato una volta superato il comporto e senza che sia stata concessa la aspettativa richiesta, quindi, sarebbe illegittimo per violazione della clausola contrattuale che conferisce al lavoratore il diritto di prolungare il periodo di conservazione del posto di lavoro grazie, appunto, all’aspettativa.

Claudio Paolini
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Dopo trapianto d’organo il parto vaginale è più sicuro

Piercarlo Salari, Pediatra

Il parto vaginale nelle donne in gravidanza con una storia di trapianto di fegato o rene non comporta rischi maggiori per il l’esito del trapianto o per il bambino. Risulta invece il contrario per il taglio cesareo programmato. Questa osservazione è emersa da uno studio americano, pubblicato sulla rivista internazionale JAMA Network Open, in cui sono stati esaminati i dati di 5 decenni relativi a 1.865 donne d’età compresa tra 18 e 48 anni, delle quali 1.435 sottoposte in precedenza a trapianto di rene e 430 a trapianto di fegato.

Più in dettaglio, i ricercatori hanno valutato l’insorgenza di problematiche a carico sia della madre (nel corso della gravidanza e del parto e relativamente al mantenimento della funzione dell’organo trapiantato), sia del neonato (condizioni generali alla nascita, eventuale ricovero con relativa durata in terapia intensiva). Il 73% delle gravidanze si è concluso con un parto vaginale, che si è associato a morbilità e mortalità neonatale inferiori a quella registrata dopo taglio cesareo.

Le donne che hanno avuto un parto vaginale hanno avuto esiti migliori per il bambino senza un aumento del rischio per la salute della madre. L’analisi dei dati ha mostrato che i bambini nati da donne con storia di trapianto di reni e di fegato, hanno avuto esiti migliori con un parto vaginale, con una frequenza di problemi intorno al 6-10% in caso di parto naturale, rispetto al 20% in caso di parto cesareo. Inoltre, i bambini nati dopo taglio cesareo programmato, hanno avuto più del doppio del rischio di problemi respiratori a breve e lungo termine, e alcuni hanno avuto necessità di ventilazione meccanica. Uno dei risultati più sorprendenti è stato che, anche se il travaglio si è poi concluso con un taglio cesareo, i neonati hanno comunque avuto esiti migliori rispetto a quelli venuti alla luce dopo un intervento chirurgico programmato. In conclusione, le donne in gravidanza con una storia di trapianto di rene o fegato possono provare ad affrontare un parto vaginale senza alcun rischio maggiore per sé, per l’esito del trapianto o per il bambino: la discussione con l’équipe che le assiste potrà meglio stabilire caso per caso l’opzione migliore. Questo dato è importante non soltanto nella valutazione della modalità del parto, ma anche alla luce del fatto che, come si legge nella pubblicazione, i tagli cesarei negli Stati Uniti hanno registrato un aumento del 20% tra il 1996 e il 2018. In questo scenario si rispecchia anche la realtà italiana: come riporta l’Istituto Superiore di Sanità, infatti, negli ultimi venti anni la frequenza dei cesarei è salita dall’11,2% nel 1980 al 33,2% nel 2000, con un valore del 33,1% nel 2017, ben superiore al 25% della media europea.


Fonti

  • JAMA Network Open 2021. Doi: 10.1001/jamanetworkopen.2021.27378; http://doi.org/10.1001/jamanetworkopen.2021.27378  
  • https://www.epicentro.iss.it/percorso-nascita/spinelli
  • http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=79836
Piercarlo Salari
News dal mondo dei trapianti d'organo

La donazione di cellule staminali emopoietiche:
come avviene e come impatta sulla QoL del donatore

Alessandro Busca, SSD Trapianto Cellule Staminali, AOU Città della Salute e della Scienza. Torino.

Il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche si basa sulla somministrazione di chemio/radio-terapia ad alte dosi che distruggono in modo irreversibile l’attività emopoietica del midollo osseo, ovvero la produzione dei componenti cellulari del midollo: globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. L’attività del midollo viene quindi ripristinata grazie al trapianto delle cellule staminali emopoietiche (CSE) di un donatore.

In origine la fonte delle CSE era unicamente il midollo osseo e solo successivamente dagli anni 80’ è stato possibile l’impiego delle cellule staminali da sangue periferico.

Il midollo osseo. Il prelievo delle CSE midollari avviene in sala operatoria mediante un prelievo in anestesia generale o peridurale dalle ossa iliache posteriori. Il prelievo viene eseguito mediante un’ago che entra dentro l’osso e  permette aspirazioni multiple che favoriscono una raccolta’ quanto piu’ ricca di CSE. Vengono aspirati circa 15-20 ml di sangue midollare per Kg del donatore. Le CSE presenti in 1 litro di midollo osseo costituiscono 3-4% del nostro patrimonio di cellule staminali e comunque vengono ripristinate nell’arco di pochi giorni. Il problema principale legato al prelievo di CSE e’ quello del traumatismo sull’osso conseguente alle aspirazioni multiple. Tale dolore non viene percepito durante la fase di raccolta in sala, ma puo’ residuare in forma lieve nei giorni a seguire ed generalmente controllato con una terapia basata su antinfiammatori.

CSE da sangue periferico (PBSC). Il prelievo di PBSC non richiede il ricovero, bensì la somministrazione di un fattore di crescita granulocitario (G-CSF) in grado mobilizzare i neutrofili dal midollo al sangue periferico. Normalmente  le CSE nel sangue  periferico sono presenti in una percentuale  molto bassa (0.01-0.1%) per cui è necessaria la somministrazione del G-CSF affiche’ possano essere raccolte mediante una procedura di leucaferesi in una quantità sufficiente per effettuare un trapianto. Il G-CSF viene somministrato sottocute per 4-5 giorni e non è richiesto alcun giorno di ricovero, la procedura leucaferetica viene infatti eseguiti in regime di day-hospital. I principali effetti collaterali sono rappresentati da una sindrome influenzale per lo più con dolori ossei e mialgie. E’ stata riportata un’incidenza di eventi avversi correlati all’uso di G-CSF estremamente bassa intorno al 0.1%. Diversi studi hanno poi escluso che la somministrazione del G-CSF possa essere associata ad un aumentato rischio di sviluppare una malattia ematologica maligna.

In ogni caso è di grande importanza che venga adottato un accurato controllo nel tempo di tutti i donatori di CSE sia midollari che PBSC, al fine di evidenziare e trattare tempestivamente eventuali complicanze.

Alessandro Busca
News dal mondo dei trapianti d'organo

IL RECUPERO FUNZIONALE E LA QUALITÀ DI VITA DOPO IL TRAPIANTO D'ORGANO

Federica Invernizzi, UOS Epatologia del Trapianto Centro di Ricerca Coordinata "A.M. e M. Migliavacca per lo Studio e la Cura delle Malattie del Fegato" Divisione di Gastroenterologia ed Epatologia Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico Università degli studi di Milano

Il trapianto di organi solidi è spesso l’unico trattamento per i pazienti con insufficienza d’organo allo stadio terminale. Esso consente ai riceventi di riprendere molte attività personali e sociali con un maggiore senso di benessere. La qualità della vita correlata alla salute (HR-QoL) è definita come l’autovalutazione della salute che comprende lo stato fisico, la salute mentale e il benessere sociale. Migliorando in generale la salute, il trapianto offre speranza per una migliore e più longeva vita. L’interesse per la HR-QoL e la ripresa funzionale dopo il trapianto è cresciuto negli ultimi anni, come confermato da numero crescente di articoli sull’argomento. I dati sono concordanti, mostrando un significativo miglioramento nei differenti scenari anche se tuttavia la qualità di vita e lo status funzionale risultano inferiori rispetto alla popolazione generale.

Il recupero funzionale

Il recupero funzionale dopo il trapianto include miglioramento delle capacità motorie e cognitive contribuendo ad ampliare le possibilità di lavoro. Infatti, il lavoro retribuito post-trapianto è considerato un segno distintivo di un’integrazione di successo dei trapiantati nella società. I pazienti che hanno lavorato prima del trapianto più facilmente trovano impiego post-trapianto. In una grande casistica americana, tra i riceventi di rene tra 18 e 64 anni lavoratori, il tasso di occupazione 1 anno dopo il trapianto oscillava tra il 47 e il 16% mentre tra i disoccupati al momento del trapianto, solo il 5% lavorava 1 anno dopo il trapianto.  Per il trapianto di fegato, l’occupazione è diminuita dal 71% pre-trapianto al 27% post-trapianto. I motivi per l’alto tasso di disoccupazione comprendono un’assenza prolungata per cause mediche o le esitazioni del datore di lavoro ad assumere un soggetto trapiantato. A questo si aggiunge la potenziale incapacità e continuare il lavoro svolto prima del trapianto. Così come per la ripresa delle funzioni motorie è molto importante la fisioterapia, un uso appropriato della formazione professionale può aumentare il tasso di rendimento alla forza lavoro per i trapiantati.

La qualità di vita correlata alla salute

Molti fattori influenzano il dato della HR-QoL dopo il trapianto; in modo particolare:

  • La presenza di comorbidità, come ipertensione e diabete. Quest’ultimo soprattutto è un perditore significativo di bassa HR-QoL.
  • Decorso pre-trapianto della malattia primaria: tipo, età di insorgenza, durata, manifestazione sistemica, modalità di trattamento precedenti e durata del trattamento (ad es. dialisi). Potenziali effetti irreversibili della malattia cronica sulla funzione cognitiva e motoria. Malnutrizione, encefalopatia e infezioni contribuiscono a prolungare la fase di recupero
  • Le complicanze chirurgiche, il ricovero prolungato e problematiche legate alla funzionalità dell’organo trapiantato ostacolano il processo di recupero.
  • I potenziali effetti collaterali dei farmaci immunosoppressivi.
  • Cambiamenti fisici dopo trapianto con alterazione dell’immagine corporea e i fattori psicologici derivanti. Inoltre c’è un’alta prevalenza di ansia e depressione nei trapiantati, la cui presenza ha un impatto negativo sulla sopravvivenza.
  • La possibile persistenza di disfunzione sessuale.
  • Un punto molto importante che impatta sulla qualità di vita è il recupero della fertilità dopo il trapianto. Dopo un’attesa raccomandata di 1-2 anni dal trapianto e una pianificazione con il medico curante (anche per la scelta corretta dei farmaci immunosoppressori), la maggior parte delle donne porta a termine con successo la gravidanza, rimanendo comunque a maggio rischio di ipertensione arteriosa, preclampsia e parto prematuro
  • Il supporto sociale e familiare ha avuto un impatto positivo sulla qualità della vita

L’attenzione dei sanitari che hanno in cura il paziente trapiantato deve pertanto passare anche attraverso un’attenta analisi di questi fattori in modo da poter intervenire ove possibile e migliorare la qualità di vita del soggetto trapiantato.

Federica Invernizzi
News dal mondo dei trapianti d'organo

DIFENDERE IL LAVORO POST TRAPIANTO DI ORGANO

Avvocato Claudio Paolini

Ogni modifica peggiorativa della condizione professionale, intervenuta in concomitanza e/o successivamente a un trapianto, che non sia fondata su motivazioni oggettive e dimostrabili, può essere oggetto di contestazione da parte del lavoratore presso tutte le sedi opportune. Il cambiamento della mansione/qualifica professionale non può, di per sé, essere basato sulla sola condizione di essere stato sottoposto a trapianto: ciò significa che tale cambiamento non può avere carattere discriminatorio. Il nostro ordinamento giuridico, infatti, si fonda su principi di diritto che tutelano il soggetto trapiantato, la sua dignità come membro della società, partecipe della vita aggregativa, relazionale, economica e produttiva.

Quanto detto può riassumersi nel seguente principio generale: ogni lavoratore ha il diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro, da intendersi come diritto di conservare la propria professionalità, nonché di essere assegnato alle mansioni per le quali è stato assunto, compatibilmente alle eventuali limitazioni sopravvenute, determinate da motivi di salute. In sintesi, la conservazione del proprio posto di lavoro è garantita nonostante l’invalidità e le nuove condizioni di salute e il datore di lavoro – è importante ricordarlo -, ove possibile, ha l’obbligo di individuare la collocazione lavorativa più adeguata alla residua idoneità al lavoro rimasta al lavoratore.

Purtroppo, a volte, nella realtà dei fatti, nell’ambito delle logiche aziendali, prevalgono scelte palesemente discriminatorie ed i mezzi di comunicazione di massa riportano la notizia di lavoratori che, dopo il trapianto, vengono privati del proprio posto di lavoro.

Di seguito alcuni dei casi più significativi, che dimostrano quanta strada ci sia ancora da fare per raggiungere il pieno riconoscimento e garanzia di tutela dei diritti dei lavoratori trapiantati.

Nel 2017, due lavoratori, nel periodo successivo al trapianto, si sono visti recapitare la lettera di licenziamento.

In quell’anno, a Torino, un operaio è stato licenziato dopo essersi sottoposto a trapianto di fegato.

L’azienda datrice di lavoro, nella lettera di licenziamento, ha affermato, in maniera generica e senza fornire prove adeguate, di avere svolto la doverosa attività di verifica circa la possibilità di ricollocare il lavoratore in altra mansione. Il grande impatto mediatico della vicenda, rinforzato anche dalla grande adesione allo sciopero di solidarietà indetto immediatamente dai Sindacati e la legittima facoltà del lavoratore di intraprendere una causa per la illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, hanno indotto l’azienda a revocare il licenziamento. In particolare, in sede di accordo con le organizzazioni sindacali, il lavoratore ha potuto scegliere tra il rientro in azienda (con reintegrazione nel proprio posto di lavoro) oppure un indennizzo che lo accompagnasse al pensionamento.

All’epoca dei fatti, Giuliano Poletti, l’allora Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, commentando il caso in esame, dichiarò “risulterà difficile esigere dall’impresa la responsabilità di garantire un’opportunità ai lavoratori che vivono situazioni come quelle dell’operaio torinese se poi non si offrono alle aziende gli strumenti per poter garantire la conservazione e il ritorno al lavoro dei lavoratori con malattie croniche”.

Sempre nel 2017, a Castel di Casio, in provincia di Bologna, un operaio è stato licenziato perché, dopo un trapianto di rene, durante il lavoro, aveva bisogno di ripetute pause fisiologiche. Dopo il fallimento della trattativa finalizzata alla reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro, questo è stato costretto ad iniziare una causa innanzi al competente Tribunale di Bologna.

Di seguito il comunicato rilasciato dalla FIM CISL – Area Metropolitana Bolognese: «Nel corso degli ultimi anni nonostante le continue sollecitazioni da parte della FIM CISL che ha più volte chiesto all’azienda un’attenzione particolare, vista la situazione fisica altamente precaria del lavoratore, la stessa al contrario, ha proceduto con numerose contestazioni fino ad arrivare ad oggi con il recapito della lettera di licenziamento». Sottolinea il Sindacato che la società “con tale atto ha contravvenuto ai doveri morali di correttezza e buona fede, violando quanto sancito dallo stesso contrattocollettivo nazionale di lavoro che impone una particolare attenzione a tutti i lavoratori che, come nel caso specifico, soffrono di determinate patologie».

Nel 2021, una lavoratrice affetta da fibrosi cistica è stata licenziata mentre era in coma, a seguito di trapianto bipolmonare, con  altri 12 lavoratori appartenenti alle categorie fragili, proprio da una cooperativa sociale che, tra i suoi scopi principali, annovera anche quello di promuovere l’attività  lavorativa di persone svantaggiate, per favorirne l’inclusione sociale. Il provvedimento è stato impugnato innanzi al Tribunale di Roma e la prossima udienza è fissata per il 20 gennaio 2022. La Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal canto suo, ha affidato il caso all’UNAR, l’Ufficio Antidiscriminazioni, il cui Direttore, Triantafilos Loukarelis, a commento della gravità della vicenda, fra l’altro, ha dichiarato: “Se […] l’aspetto economico è sicuramente importante, è ancora peggio far mancare a queste persone l’identità sociale in cui si rispecchiano e si riconoscono”.

Non tutti i casi esistenti raggiungono l’opinione pubblica e si può stimare che le situazioni in cui, post trapianto, i lavoratori si trovano a dover lottare per vedersi riconosciuta un’adeguata qualità della propria vita lavorativa o anche il loro posto di lavoro siano più numerosi di quelli portati alla ribalta dai mezzi di comunicazione.

In casi come questi, da un punto di vista giuridico, il problema principale è individuare e garantire l’equilibrio ed il contemperamento tra i diversi diritti in gioco, tutti riconosciuti e tutelati dalla nostra Costituzione: da un lato la libertà d’iniziativa economica del datore di lavoro e dall’altro il diritto del lavoratore alla stabilità del proprio posto di lavoro ed alla tutela della propria salute.

Vedremo insieme come la legge può offrire tutela ai lavoratori trapiantati, colpiti da un licenziamento e dalla conseguente perdita di retribuzione.

Claudio Paolini
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